Realtà ahahah

Far comprendere che la vita è una barzelletta cosmica,non sarà facile ma ci proverò
Grande povertà è quando l'uomo ha bisogno di tante cose: perché così egli dimostra di essere povero di cose del Grande Spirito.
Tuiavii capo polinesiano
Partirono alla ricerca della Verità. Trovarono chi li stava sognando.
Alejandro Jodorowsky
Nessuno va chiamato nemico; tutti sono tuoi benefattori, e nessuno ti fa
del male.
Non hai nemici, eccetto te stesso.
Francesco d’Assisi

I GOVERNI NON VOGLIONO UNA POPOLAZIONE IN GRADO DI PENSIERO CRITICO VOGLIONO LAVORATORI OBBEDIENT

I GOVERNI NON VOGLIONO  UNA POPOLAZIONE IN GRADO DI PENSIERO CRITICO  VOGLIONO LAVORATORI OBBEDIENT
I GOVERNI NON VOGLIONO
UNA POPOLAZIONE IN GRADO
DI PENSIERO CRITICO

VOGLIONO LAVORATORI OBBEDIENTI
PERSONE INTELLIGENTI QUANTO BASTA
PER FAR FUNZIONARE LE MACCHINE
E STUPIDI ABBASTANZA PER
ACCETTARE PASSIVAMENTE LA LORO SITUAZIONE

giovedì 12 dicembre 2013

Perché l’occidente ama Mandela e odia Mugabe

fonte aurorasito.wordpress.com
robert_mugabe_birthday_2In morte di Nelson Mandela, osanna continuano ad essere cantati verso l’ex leader dell’ANC e presidente sudafricano sia da sinistra, per il suo ruolo nel porre fine al razzismo istituzionale dell’apartheid, che da destra, apparentemente per la stessa ragione. Ma l’abbraccio della destra di Mandela eroe antirazzista non sembra genuino. C’è un’altra ragione del perché media dell’establishment e politici tradizionali sono pazzi di Mandela come la sinistra?
Secondo Doug Saunders, giornalista del quotidiano canadese sfacciatamente pro-aziendalista, The Globe and Mail, c’è. In un articolo del 6 dicembre, “Dal rivoluzionario al manager: la lezione del cambiamento di Mandela“, Saunders scrive che il “grande risultato” di Mandela fu proteggere l’economia sudafricana, quale sfera dello sfruttamento da parte della minoranza bianca possidente e delle élite aziendale e finanziarie occidentali, dalle necessità di una giustizia economica tra le file del movimento da lui guidato. Saunders non la mette in questi termini, piuttosto, nasconde gli interessi settoriali dei detentori di titoli, proprietari terrieri ed investitori stranieri che sono dietro l’abbraccio di Mandela dei “sani” principi della gestione economica, ma il significato è lo stesso. Saunders cita Alec Russell, autore del Financial Times che spiega che sotto Mandela, l’ANC “si è rivelato un amministratore affidabile della più grande economia dell’Africa sub-sahariana, abbracciando politiche fiscali e monetarie ortodosse...” Cioè, Mandela ha fatto in modo che il flusso dei profitti dalle miniere e dall’agricoltura sudafricane alle casse degli investitori stranieri e delle élite aziendali bianche non venisse interrotto con l’attuazione del programma di giustizia economica dell’ANC, con le sue richieste di nazionalizzazione delle miniere e di redistribuzione della terra.
Invece, Mandela respinse le richieste di giustizia economica come “cultura dei diritti”, di cui i sudafricani dovevano liberarsi. Riuscendo a persuaderli nel farlo, significò che la digestione pacifica dei profitti dei potenti poté continuare senza interruzioni. Ma non è il tradimento di Mandela del programma economico dell’ANC che secondo Saunders merita l’ammirazione della destra, anche se ne è certamente grata. Il genio di Mandela, secondo Saunders, fu che lo fece “senza alienarsi i seguaci radicali o scatenando una pericolosa lotta tra fazioni nel suo movimento“. Così, secondo Saunder, Mandela era un tipo speciale di leader: uno che poteva usare i suoi enormi prestigio e carisma per indurre i seguaci a sacrificare i propri interessi per il bene delle élite che si  arricchiscono con il loro sudore, arrivando ad accettare il ripudio del proprio programma economico. “Ecco la lezione fondamentale di Mandela ai politici moderni“, scrive Saunders. “Il leader dai principi di successo è colui che tradisce i membri del suo partito per i maggiori interessi della nazione. Quando si deve decidere tra il movimento e il bene più grande, il partito non dovrebbe mai venire prima.” Per Saunders e la maggior parte degli altri giornalisti mainstream, “i maggiori interessi della nazione” sono i grandi interessi di banche, proprietari terrieri, obbligazionisti ed azionisti. Questa è l’idea espressa nel vecchio adagio “Ciò che è buono per GM, è buono per l’America.” Da quando i media tradizionali sono grandi aziende, intrecciate con altre grandi aziende, e dipendono ancora da altre grandi società pubblicitarie, l’apposizione del segno uguale tra interessi aziendali e l’interesse nazionale viene del tutto naturale. Saremmo scioccati dallo scoprire che un giornale a grande diffusione e proprietà di ambientalisti (se una cosa del genere esistesse) si opponesse al fracking? (I giornalisti potranno gioirne, “dico quello che mi piace.” Ma, come Michael Parenti una volta sottolineò, i giornalisti dicono quello che vogliono perché ai loro padroni piace quello che dicono.)
Com’era prevedibile, Saunders conclude il suo elogio del tradimento anti-partito di Mandela, l’eroe ‘buono’ della liberazione, con un riferimento al ‘cattivo’ eroe della liberazione sudafricana, Robert Mugabe. “Basta solo guardare a nord, nello Zimbabwe, per vedere cosa accade di solito quando i rivoluzionari” non riescono a seguire il percorso economico conservatore di Mandela, scrive Saunders. A un certo punto, la predilezione di Mugabe per la politica fiscale e monetaria ortodossa era forte quanto quella di Mandela. Eppure, dopo quasi un decennio e mezzo di demonizzazione sui media occidentali di Mugabe come delinquente autocratico, è difficile ricordare che anche lui, una volta faceva brindisi con i capitali occidentali.
L’amore dell’occidente verso Mugabe finì bruscamente quando respinse il Washington Consensus e  avviò un veloce programma di riforma agraria. Il disprezzo verso di lui s’approfondì quando lanciò un programma di indigenizzazione per mettere il controllo della maggioranza delle risorse minerarie del Paese nelle mani dei cittadini neri dello Zimbabwe. La transizione di Mugabe da eroe ‘buono’ della liberazione a ‘cattivo’, da santo a demonio, coincise con il suo passaggio da “steward affidabile” dell’economia dello Zimbabwe (cioè affidabile per gli interessi degli investitori stranieri e dei coloni bianchi) a promotore degli interessi economici dei neri indigeni. Questo è un passaggio che Mandela non fece mai. Se l’avesse fatto, l’élite imperialista non avrebbe affollato il Sud Africa per i funerali del Santo Mandela, traboccando di gentili elogi.

domenica 13 ottobre 2013

Se questo è un dittatore????

inv

ROBERT MUGABE: EROE NAZIONALE O DITTATORE?

Zimbabwe :::: Carlomaria Bottacini :::: 13 ottobre, 2013 :::: Email This Post   Print This Post
ROBERT MUGABE: EROE NAZIONALE O DITTATORE?
Sono passati oltre trent’anni da quando Robert Mugabe, dopo anni di lotta contro l’apartheid e lo sfruttamento coloniale, si è instaurato per la prima volta alla guida dello Zimbabwe, fresco di indipendenza. Dal 1980 ad oggi la vita politica del Paese è dominata esclusivamente dalla sua persona, sette mandati consecutivi, l’ultimo ottenuto pochi mesi fa in seguito a contestate elezioni da parte del suo rivale e dei Paesi occidentali. Ciò che lo porta ad essere amato da alcuni lo rende inviso ad altri: è infatti malvisto da buona parte del mondo occidentale, il quale non digerisce le politiche anti-imperialiste – riforma agraria in primis – ma soprattutto il fatto di aver rivolto lo sguardo a est, verso la Cina, per aiuti economici e accordi commerciali, in particolare per quanto concerne lo sfruttamento delle miniere. Eroe nazionale o dittatore? Il dibattito è aperto.



Le origini: la lotta politica per l’indipendenza. Era il 1980 quando il regime di apartheid di Ian Smith veniva smantellato e l’ex colonia britannica della Rhodesia del Sud otteneva l’indipendenza, divenendo Zimbabwe. Uno dei grandi leader della rivolta anti-colonialista era l’allora 66enne Robert Mugabe, che divenne il primo capo di governo dello Stato africano. In un Paese in cui vigeva una segregazione razziale non diversa da quella sudafricana, Robert Mugabe venne incarcerato dal 1964 al 1974 per le sue azioni anti-governative. Una volta libero, emigrò per poi tornare in patria per combattere ancora una volta l’abolizione dell’apartheid, divenendo un vero e proprio eroe nazionale. Nonostante i numerosi anni al potere e le forti critiche che circondano la sua figura, l’affetto di una buona parte del popolo zimbabwese è ancora saldo proprio in virtù del ruolo decisivo e determinante che Mugabe ebbe per l’indipendenza nazionale, tanto da essere considerato un simbolo della lotta contro l’apartheid.

I primi anni di potere. Dopo un primo decennio di potere segnato dalla prudenza, dove nonostante l’ideologia socialista di Mugabe non ci furono né nazionalizzazioni né esperimenti socialisti in campo economico, la situazione cominciò a cambiare durante gli anni ‘90. Prima di allora Mugabe aveva lasciato inalterato l’inquadramento bianco dell’esercito, mantenendo al loro posto gli agenti bianchi dei servizi di informazione e di sicurezza. Inoltre, accettò di inserire dei ministri bianchi nel suo governo e venti seggi parlamentari vennero riservati ai bianchi.
Nonostante tutto questo, però, il tentativo di riconciliazione fallì miseramente, anche di fronte all’ostilità inglese. I britannici, infatti, finanziati dalla comunità del Sudafrica, tentarono più volte di togliere di mezzo Mugabe. Non riuscendoci con vari attentati, alimentarono le ostilità all’interno del governo, finanziando fino ai giorni nostri i suoi oppositori: Nkomo, Edgar Tekere e, più recentemente, Morgan Tsvangirai e il suo Movimento per il cambiamento democratico, uscito sconfitto dalle elezioni di luglio.

La riforma agraria. A partire dalla riforma costituzionale del 2000 cominciò la temuta, da parte dei coloni bianchi, riforma agraria. Dopo aver atteso diversi anni poiché gli accordi di Lancaster House impedivano di modificare lo status quo, il governo zimbabwese cercò la mediazione, proponendo ai latifondisti britannici di acquistare lui stesso le fattorie ad un prezzo negoziato. Di fronte al rifiuto di questi ultimi, Mugabe irrigidì poco a poco le sue posizioni e alla fine decise di mandarli via rimborsando niente altro che le infrastrutture che avevano costruito loro stessi.
All’epoca dell’indipendenza, nel 1980, più del 70% delle terre coltivabili era in mano a poche migliaia di proprietari terrieri bianchi. Per correggere questa stortura derivante dal periodo coloniale, il nuovo governo di Mugabe redistribuì le terre a favore della popolazione locale, a fronte di circa 6 mila precedenti proprietari bianchi si sostituirono circa 245 mila zimbabwesi1.
Da questo momento le relazioni fra Gran Bretagna e lo Zimbabwe non saranno più le stesse. Una sorta di guerra fredda, nella quale Mugabe sentiva di farsi promotore non solo delle rivendicazioni nazionali, ma di tutto il continente: “La nostra causa – disse – è la causa di tutta l’Africa e di ogni Africano”.
Se questa riforma abbia avuto ripercussioni favorevoli o meno sull’economia nazionale non c’è accordo fra gli studiosi: da una parte chi sostiene che essa si sarebbe rivelata come uno spinoff positivo per il settore primario, come sostenuto in un recente libro da parte di alcuni analisti2,  dall’altra chi invece sostiene che i benefici derivanti dalla redistribuzione terriera sarebbero limitati ai soli fedelissimi di Mugabe, che si sarebbero dunque sostituiti ai vecchi coloni bianchi. Inoltre, si ribatte soprattutto che i nuovi proprietari terrieri non abbiano né mezzi né capitali per potersi veramente sostituire ai vecchi, avendo come effetto diretto non un miglioramento, bensì una sensibile crisi del settore agricolo.
Quello che è certo è che la riforma agraria era necessaria. La situazione latifondistica di epoca coloniale era diventata insostenibile, bisognava riorganizzare e redistribuire le terre in modo da permettere anche alla popolazione nera di avere accesso al settore primario e al cibo. Discutibile resta però l’organizzazione di essa, tanto che la produzione sul breve periodo crollò in maniera significativa.

I rapporti con le potenze occidentali: le sanzioni economiche. In seguito alla nazionalizzazione delle terre agricole, i rapporti con l’Occidente subiranno un ulteriore inasprimento.
I rapporti tesi con il Regno Unito risalgono già all’indomani dell’indipendenza del Paese africano nel 1980, quando, in base agli accordi di Lancaster, infatti, i britannici avrebbero dovuto contribuire economicamente alla riforma agraria3e alla riprogrammazione economica di uno Stato in cui la minoranza bianca aveva in mano gran parte delle ricchezze. Tutto ciò non è mai avvenuto e, anzi, a nel 2002 il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso per delle misure restrittive nei confronti dello Zimbabwe e della sua leadership4; a breve distanza – nel 2003 – anche gli Stati Uniti adottarono un provvedimento analogo. Questi provvedimenti, se da un lato hanno l’obiettivo di indebolire il governo e la sua leadership, dall’altra hanno avuto un effetto diretto nei confronti dell’intera popolazione, già allo stremo a causa dell’insufficienza alimentare e hanno impedito al Paese di risollevare un’economia disastrata, in cui il tasso di disoccupazione raggiunge picchi elevatissimi – intorno al 70% nel 20115- e quello di occupazione è inferiore al 1980.
Solo di recente queste sanzioni sembrano allentarsi: alcune settimane fa, infatti, l’embargo UE nei confronti dei diamanti – di cui lo Zimbabwe possiede molti giacimenti – è stato rimosso6, e ciò permetterà al Paese di riprendere il commercio delle pietre preziose sul mercato più grande del mondo di questo settore, ad Anversa, Belgio.

Sguardo verso est. Viste le difficoltà con l’Occidente, Robert Mugabe ha scelto di rivolgere il proprio sguardo in cerca d’aiuto a est, alla Cina in particolare, ma anche verso le cosiddette “tigri asiatiche”, economie in forte crescita e desiderose di mercati in cui espandersi per aumentare la propria egemonia. Già nel 2005, l’attuale 89enne presidente zimbabwese riferì: “Ci siamo girati ad Est, dove sorge il sole, dando le spalle all’Ovest  dove il sole tramonta”7, un’affermazione dura che rende manifesta la sua intenzione di guardare al mercato asiatico per le future collaborazioni economiche. La Cina, Paese che non mette bocca, al contrario dei suoi omologhi europei e degli Stati Uniti, in materia di rispetto di diritti civili e politici, è diventato in pochi anni il primo partner economico dello Zimbabwe, ricco di risorse naturali.

Il settimo mandato. Nelle recenti elezioni presidenziali del 31 luglio, Robert Mugabe ha ottenuto la riconferma per il settimo mandato consecutivo alla guida dello Zimbabwe. Un risultato, però, messo in dubbio sia dal suo avversario politico, Morgan Tsvangirai, che dalle potenze occidentali, in particolare da Stati Uniti e Regno Unito che “auspicano” un’indagine indipendente per chiarire e confermare la credibilità del processo elettorale8. Numerose le critiche avanzate da parte del mondo occidentale – e in particolare dagli inglesi – circa la credibilità e la validità delle elezioni. Il presidente è stato molto chiaro circa l’ingerenza straniera negli affari interni: “Tu punisci me. Io punisco te. Abbiamo una nazione da guidare e dobbiamo essere liberi di farlo”9.
Oggi, dopo sette mandati consecutivi, Robert Mugabe prosegue nella sua politica anti-imperialista spingendo per l’indigenisation, nel tentativo di costringere le aziende straniere a cedere le loro quote ai neri africani. Questa scelta, se da un lato lo rende popolare fra la popolazione – in modo che il Paese possa riappropriarsi di ciò che in passato era stato perso a causa della colonizzazione – non è vista di buon grado dalle potenze straniere che in Zimbabwe fanno affari. Ed è perciò in quest’ottica che devono essere lette le condanne verso la leadership del Paese africano che a più riprese sono giunte da Paesi europei e dagli Stati Uniti alle quali l’eterno presidente Mugabe risponde per le rime. Nel giorno del giuramento per l’inizio del settimo mandato, Mugabe ha infatti sottolineato che non accetterà critiche da parte della Gran Bretagna e dei suoi domini Canada e Australia, nè tanto meno dagli Stati Uniti e dalla loro “storia di schiavitù”10 ,chiedendo di rispettare “la voce dell’Africa che ha parlato”.

Il futuro. Dopo aver ottenuto nuovamente la conferma alla guida del Paese, Mugabe è chiamato a far fronte a importanti questioni che riguardano il suo popolo: oltre alla già ricordata disoccupazione e alle varie storture economiche che attanagliano il Paese, vi è un’altra, ancor più grande problematica che deve essere affrontata.
Secondo recenti stime da parte dell’ONU e del WFP, infatti, oltre 2,2 milioni di zimbabwiani non avranno accesso a sufficiente cibo nel primo semestre del 201411. Una crisi alimentare dovuta sia all’instabilità climatica, ma soprattutto a scelte – economiche e politiche – che sono state prese negli ultimi decenni.

Eroe nazionale o dittatore? Trarre un giudizio finale sulla discussa figura di Robert Mugabe non è semplice. Se da una parte la sua persona si è legata indissolubilmente alla lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna e soprattutto contro l’apartheid, dall’altra, una volta acquisito il potere, questo è sfociato troppe volte in abusi e violenze contro dissidenti e personaggi scomodi. Una realtà che l’Occidente non ha mancato di sottolineare e che ha condannato ripetutamente, evidenziando però a sua volta una lettura delle vicende zimbabwesi eccessivamente occidentalizzata, spingendo affinché il processo democratico portasse verso l’elezione di un candidato – in questo caso l’avversario politico di Mugabe, Morgan Tsvangirai – decisamente più ben disposto nei loro confronti.
Una buona parte degli zimbabwiani crede ancora molto nel suo eroe nazionale, in cui colui che li ha portati all’indipendenza e che si è battuto contro i soprusi di epoca coloniale. Sono ancora tanti gli africani che lo difendono a spada tratta. Secondo loro, non è tollerabile che l’Occidente si arroghi il diritto di dettare le sue condizioni imperialiste e di imporre i loro dirigenti per depredare il sottosuolo africano.  E l’Unione Africana e il Southern African Development Community (SADC), infatti, a fronte di una linea dura e intransigente da parte di Stati Uniti e Unione Europea,  portano avanti una politica più tollerante: fra i sostenitori maggiori di Mugabe troviamo il Sudafrica, importante partner economico, ma soprattutto la Cina, il cui veto al Consiglio di Sicurezza ONU ha permesso al Paese di evitare sanzioni ancora più pesanti di quelle già messe in atto nel 2003 12.



* Carlomaria Bottacini ha conseguito la laurea triennale in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano ed è attualmente studente in Sciences Politiques, orientation Relations Internationales presso l’Universitè Libre de Bruxelles.



Note Bibliografiche e Riferimenti Multimediali


1  http://www.cairn.info/article.php?ID_ARTICLE=PE_083_0653#no15 , ultimo accesso ottobre 2013
2  Zimbabwe takes back its land, Joseph Hanlon, Jeanette Manjengwa e Teresa Smart, Kumarian Press, Sterling,    Virginian, 2013
3 http://www.monde-diplomatique.fr/carnet/2008-04-03-Tournant-au-Zimbabwe, ultimo accesso ottobre 2013
4 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2002:050:0001:0003:FR:PDF, ultimo accesso ottobre 2013
5 http://www.bloomberg.com/news/2011-04-18/zimbabwe-s-unemployment-rate-estimated-at-70-daily-news-says.html , ultimo accesso settembre 2013
6 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:252:0023:0024:IT:PDF, ultimo accesso ottobre 2013
7 http://www.worldsecuritynetwork.com/Africa/no_author/Mugabe-turns-back-on-West-and-looks-East, ultimo accesso settembre 2013
8 http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/africaandindianocean/zimbabwe/10259014/Britain-calls-for-investigation-into-Zimbabwe-vote-as-Robert-Mugabe-is-sworn-in.html , ultimo accesso settembre 2013
9 http://www.theguardian.com/world/2013/aug/25/robert-mugabe-foreign-firms-zimbabwe , ultimo accesso settembre 2013
10 http://www.liberation.fr/monde/2013/08/22/zimbabwe-mugabe-investi-pour-un-sixieme-mandat_926307 , ultimo accesso settembre 2013
11 http://www.wfp.org/countries/zimbabwe/overview , ultimo accesso settembre 2013
12 http://www.cairn.info/article.php?ID_ARTICLE=PE_083_0653#no15 , ultimo accesso ottobre 2013

mercoledì 17 luglio 2013

La natura,cura

Il medico abile è un uomo che sa divertire con successo
i suoi pazienti, mentre la Natura li sta curando.
Voltaire

lunedì 6 maggio 2013

Misteri della trasmissione - Krishnamurti




Prefazione

Questo libro non è destinato a qualsiasi interrogatorio degli insegnamenti di Krishnamurti, ma cerca di dare un'occhiata al l'impatto nel tempo e nello spazio, che possono essersi verificati in un ammiratore incondizionato, a suo tempo, questo potente nuovo modo di pensare, dal carattere.

E 'quindi il percorso di un discepolo del maestro, anche se quest'ultimo réfutât questo termine, che è l'argomento di questo libro, i termini di esplorazione può sorprendere.
           
Essa non pretende di insegnare nulla, ma semplicemente per descrivere quello che è successo dall'ascolto soggiogato un ascoltatore in discussione da sue lezioni, sotto il tendone   di Saanen e leggendo i suoi libri.

L'autore non rivendica contenere qualche verità in una zona dove la soggettività e le contraddizioni abbondano, soprattutto perché tutte queste presunte verità sono solo concetti che generalmente arricchiscono già memoria responsabile per la conoscenza.

"La parola non è la cosa", ha detto Krishnamurti, e la grande lezione che appare in questa esplorazione è che punti a ciò che è al di là di parole e parole, immergendosi direttamente nel nulla di non sapere.

Il grande scherzo cosmico pone l'uomo nella condizione paradossale in cui vi è esaurimento capire cosa può mai essere risultato molto soddisfacente perché annulla ricercatore ricercato.

E 'un salto nel buio dove arriviamo a casa, con il riconoscimento che siamo sempre stati ...


Capitolo I

Se Krishnamurti era una pietra miliare nel mondo delle esplorazioni, degli altri insegnamenti non-dualistica dell'uomo guidato la proiezione sul fatto che la personalità autonoma, con una presunta volontà, è che una convinzione illusoria che è possibile controllare direttamente e senza intermediari.

Molto spesso, questo punto chiave è incorporato nelle interpretazioni magma del pensiero, e il secolo corrente genera domande che non si sfiorano gli spiriti degli antichi abitanti del pianeta Terra.

Estendendo l'osservazione di quanto è successo nel mondo, da quello che possiamo vedere, il mammifero umano ha sempre mostrato una forma di intuizione che si sentiva che qualcosa doveva esistere come un potere superiore che ha guidato e sostenuto il gigantesco 
dispiegamento cosmico.

I nomi dati a questa intuizione variano da paese a paese e razza, gruppi di umani, soggiogati da precursori nella forma che ha messo questa intuizione, hanno creato organizzazioni chiamate religioni.

Altri, in numero minore, seguiti maestri illuminati a vari livelli di intraprendere una ricerca più specifica.
Siamo costretti a constatare che queste aziende non hanno cambiato nulla nella condizione precaria e miserabile della maggioranza dei 
abitanti della Terra.

Ciò che in realtà questo slancio verso l'ignoto, la santità, il misticismo, le credenze, se non per riempire un vuoto abissale ed esorcizzare le nostre paure più profonde, con il piccolo inconveniente di vedere risultato queste ideologie inconciliabili differenze e uccisioni senza fine, che durano nel terzo millennio.

Il concetto di "Dio" ha preso forma con molteplici interpretazioni che sono state attribuite a lui, in diversi paesi e razze, con il punto comune della necessità urgente di sviluppare e vivere nella verità, a seguire insegnamenti, le pratiche, e una varietà di comportamenti in un bellissimo gioco in cui si è chiamati ricercatore spirituale.

Questo può continuare tutta la vita, e per coloro che non rinunciano lungo la strada, la tendenza principale che permette la pseudo-personalità per mantenere il controllo senza troppe difficoltà, dal momento che l'avvento di illuminazione significa fine del suo regno. 

Se doppio canale offre una meta, il percorso diretto è costellato di intuizioni che possono rilevare i film che passano nella mente non sono altro che la confezione e la formattazione salvato senza la nostra conoscenza in quanto la prima infanzia.

Questo declino ci porta a porre la domanda: sono questi programmi realmente noi stessi che sono visti come reazioni automatiche che il progetto verso l'esterno in tutte incoscienza?

Se noi non prendiamo, troviamo che i pensieri vengono dal vuoto di tornare indietro come sono venuti, e questo è il tipo di dichiarazione che inizia a farci scettico sul fatto che potrebbe essere che la nostra identificazione il pensiero è una convinzione che non corrisponde alla realtà, fino a completo oscurato.

Questo tipo di scoperta, se sconvolge la nostra visione di noi stessi è in realtà un passo avanti, perché apre la strada alla conoscenza della nostra vera natura di sperimentazione e non per la lettura o il discorso fatto da altri, compresi quelli Krishnamurti.

Questo è dove il concetto di percorso diretto si verifica perché non vi è di più per andare conoscenza pesca ma siamo intimamente consapevoli che  lo spazio e il tempo , quella che scaturisce dalle sensazioni, emozioni, pensieri, sorgenti dal vuoto silenzioso e tranquillo.

E penetra nella forma mente-corpo di maturità che mette al posto giusto tutte le fedi, le ideologie, le opinioni non possono essere prese sul serio, dopo queste scoperte ci cominciano a risvegliarsi dal sogno.

Quando il rumore mentale permanente è visto per quello che è, una semplice visualizzazione di energia che abbiamo identificato, la buona battuta, istituito con il grande architetto è sventato, ci può portare gioia come si comincia a capire ciò che il termine significa liberazione.
Iniziando a rendersi conto che non siamo i nostri pensieri, ma è il gioco che spinge un impersonale tutti i dettagli di miliardi di forme che si incarnano nel mondo di instant nel tempo.

Quando vide che un'ondata di pensieri appaiono e scompaiono, coloro che hanno prestato sufficiente attenzione potrebbe realizzare c'era spesso una pausa tra due pensieri.

Quando il vuoto in silenzio cresce, "  il vuoto che ci appaiono nel nulla assoluto della nostra natura senza tempo. " 

Questa affermazione audace trasforma portando un po 'di semplicità ammissibile dalla mente. La vita è tutto ciò che è e ciò che può essere, essa svolge semplicemente il ruolo di un individuo che si sente autonomo e indipendente.

Infatti, la fonte della vita abita il corpo al suo design e lascia i morti.

"Questa forza vitale non è qualcosa che la nostra vera natura."

Incredibile scoperta, ci sono forza vitale, ma anche una manifestazione della forza vitale nel tempo e nello spazio.

Alcune frasi chiave che definiscono il grande mistero:
La forma è vuoto, il vuoto è forma
La coscienza si manifesta è la stessa della coscienza non manifestato

Il fisico può dire:
Indifferenziato emana energia dell'atomo e dei suoi componenti, base di tutto ciò che esiste.

In sintesi, l'energia che anima la vita è vita allo stato puro, si manifesta l'universo e che la polvere del grano è chiamato essere umano e dimenticato nella sua manifestazione.

Quando si ritirò in un corpo, diventa polvere che, alla fine, non importa, questo particolare evento non ha alcun propria esistenza inganno della vita promuove la convinzione di essere un entità autonoma, con una volontà libera separata e tutti, che drammatizza il problema della pseudo-personalità, mangiata dal suo aspetto e le sensazioni.

Una volta sventato il più grande equivoco di credere identificazione separata con una falsa identità cessa, l'unico rimasto grande divario ed è allora che abbiamo visto un onda di energia che si verifica in qualsiasi cosa.

Alla fine del corpo, troviamo l'unità prima della nascita, la pseudo identità fuse con la sua origine, non vi è nessuno a morire.
Se non che noi non riconosciamo partiamo con la convinzione  che ci sia qualcuno che muore.
In un modo o un altro, come lasciamo il mondo non è opera nostra, e non un obiettivo, soprattutto quando la presunzione di chi ha la vita caduto .

La comprensione è, qualunque cosa accada, si tratta di una questione di coscienza che è diviso in due, l'unica alternativa per l'umano sta nella integrazione di questa comprensione, dove esplode tutti i concetti nel grande silenzio della ritrovata unità.

Evidente che le nostre decisioni sono parte di un programma che ci sfugge, per la buona ragione che il percorso di ciascuno è già giocato nel grande computer centrale, in quanto crediamo fermamente che noi abbiamo il libero arbitrio e la scelta.

Questo può essere molto frustrante, ma il contrario può accadere, le cose sono quello che sono e non possono essere altrimenti, tutto avviene nel silenzio che sa tutto quello che succede nelle apparizioni teatrali.

Quali sono i segnali che possono farci capire che siamo prigionieri di determinismo come un radicale?
Alcuni termini della nostra vita attuale possono essere in grado di aiutarci a decifrare il mistero.

Durante questo viaggio della vita, possiamo vedere che ci frequentiamo tre stati ben definiti: lo stato di veglia, lo stato di sogno e di sonno profondo.
Successivamente, questi tre stati vanno e vengono, ma la coscienza impersonale sottostanti quegli stati in cui è il substrato permanente.

Chi sono allora? Questi tre stati stazionari che si succedono nel corso della vita, o l'energia impersonale di questi tre stati che sorgono?

L'intuizione più significativa che possiamo vivere la vita nel sonno profondo, questo stadio è come un viaggio nella sua fonte, la pseudo-personalità scompare. Troviamo in ogni rinascita, in qualche modo, potremmo dire: il mondo è perché c'è qualcuno a vederlo.

Quando standby viene recuperato, l'individuo prende i suoi film e scenari dove si trovavano. E 'come la storia di una vita, quando l'umano diventa grande spettacolo intermittente dell'universo in movimento per qualche frazione di secondo rispetto all'eternità.

Scoperte che ci può portare una visione oggettiva dei tre stati è che il corso nel tempo e nello spazio obbedisce a un sottile atto molto rivoluzionario per la mente contemporanea.

La fonte di vita e la sua miriade di manifestazioni, compreso l'uomo, sono unificati in energia senza tempo che anima di momento in momento, ogni situazione affrontata da persone sul pianeta, umana, animale, vegetale e mondo minerale.
Questo merita una profondità realistica.

martedì 12 marzo 2013

Iran e Hollywoodismo: un progetto per cambiare la fabbrica dei sogni


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ScarsoOttimo 
conerryinidi Pino Cabras – Megachip.
Proprio mentre abdica il papa, è per me davvero ironico rientrare da Teheran, tornare da una modernissima e brulicante metropoli mediorientale che discute di tecnologie e “soft power”, per ritrovarmi invece in un Occidente monopolizzato dalle discussioni sul potere dei propri capi religiosi, impegnati a ripetere rituali antichi. Quando ci sembra un mondo alla rovescia non è colpa del mondo: lo guardavamo con idee sbagliate.
Faremo bene a prendere sul serio l’Iran per ragioni molto diverse da quelle che vediamo nei nostri media e nei film hollywoodiani. La settimana che ho appena trascorso a Teheran è stata illuminante. Mentre nella capitale iraniana si celebrava il 31° Fajr International Film Festival, la manifestazione che ogni febbraio propone al mondo lo sguardo iraniano sul cinema, ho partecipato alla conferenza “Hollywoodism”, che da tre anni in qua affianca la manifestazione principale, assieme a intellettuali, giornalisti, cineasti, produttori di tutto il mondo, tanti statunitensi. Se il Festival è la vetrina più nota, Hollywoodism è ormai il forum prediletto dagli organizzatori iraniani: alle tavole rotonde partecipano ministri, viceministri, direttori culturali, registi, critici cinematografici, tutti molto desiderosi di confrontarsi con gli ospiti internazionali. Come mai tanta mobilitazione? Cosa nascerà di nuovo da loro e da noi? Ecco il mondo alla rovescia ed ecco le sorprese del futuro
Le classi dirigenti iraniane non puntano solo alla padronanza scientifica dell’«hard power» (nelle tecnologie militari, industriali, spaziali e nucleari). Vogliono fare fruttare massicciamente anche il «soft power»: intendono cioè esercitare un’egemonia con ambizioni globali attraverso risorse intangibili nel campo della cultura, dei valori, dell’immaginario collettivo e nella costruzione di una nuova politica con inedite alleanze. Noi che in Occidente viviamo in una bolla mediatica rischiamo di non capire l’importanza di questa nuova realtà con cui faremo i conti. Se usciamo dalla bolla scopriamo che quella di Teheran non è affatto una missione impossibile. E capiamo anche che è tremendamente interessante perfino per chi, come noi, ha valori diversi da quelli della Repubblica Islamica dell’Iran.
L’immagine in voga dell’Iran in Occidente è quella di un paese isolato, mentre invece è il protagonista della rifondazione del Movimento dei paesi Non Allineati, 120 Stati che rappresentano la maggior parte della popolazione mondiale e dell’economia globale. Da noi quasi neanche un rigo su tutto questo importante viavai, di cui Teheran è già il crocevia. L’Iran non è un paese separato dalla «comunità internazionale». È un paese colpito duramente dalle sanzioni di pochi. Gli stessi poteri che a noi impongono la dittatura dello spread.

Hollywoodismo è un concetto indovinato, una sintesi folgorante, una denominazione che descrive l’anima della più penetrante produzione di immagini in movimento nella storia dell’umanità, quella in cui siamo immersi. Le autorità iraniane, a differenza di altri sistemi politici - che hanno sempre sottovalutato l’importanza politica primaria della fabbrica dei sogni e delle distorsioni incentrata sull’immaginario nordamericano - hanno capito che la questione del sistema della comunicazione è centrale, e richiede un’interpretazione d’insieme.
Se diciamo Hollywoodismo, come per tutti gli «-ismi», rischiamo di cristallizzare una materia intellettuale che invece si muove. Tuttavia, l’espressione fa capire che siamo di fronte a un paradigma culturale. Per decenni questo paradigma ci ha sovrastato e inglobato, e molti non lo hanno riconosciuto. A Teheran e altrove (penso all'Argentina, e non solo) lo hanno invece individuato bene. Perciò propongono un altro modello, che rimanda al futuro e che non vogliono costruire da soli.
La critica al paradigma ha trovato buoni argomenti: alla conferenza sono state smontate pezzo per pezzo le più recenti perle propagandistiche del cinema d’Oltreoceano, come il tanto decantato “Argo”di e con Ben Affleck, il grottesco “Dittatore” con Sacha Baron Cohen, il violentissimo “300” di Zack Snyder, il film in favore della tortura “Unthinkable” con Samuel L. Jackson, nonché l’orripilante“Jerusalem Countdown”, una produzione del cinema cristianista che va per la maggiore tra i fanatici integralisti della Bible Belt americana. Ma in ballo non c’è solo una reazione alla produzione industriale di bombe islamofobe e antipersiane. C’è di più.
Cosa ci sia, lo chiedo a uno dei partecipanti alla conferenza, William Engdahl, giornalista statunitense, autore di brillanti editoriali su Global Research e profondo conoscitore delle politiche americane in Medio Oriente. Qual è la scoperta che oggi si fa strada rispetto a Hollywood? «Il sistema Hollywood ha formato una delle armi più efficaci fra quelle volte a estendere un’egemonia americana globale», afferma Engdahl, «e questo è avvenuto sin dall’avvento del film muto e ai tempi del matrimonio dei film di Hollywood con i concetti di Propaganda sviluppati durante la Prima guerra mondiale da un gruppo voluto dal presidente Woodrow Wilson». Chi faceva parte di questo gruppo? Engdahl fa un nome importante: Edward Bernays. Nipote di Sigmund Freud, Bernays è stato il capostipite dei moderni “spin doctor”, e fu – nell’ombra - una delle più influenti personalità del XX secolo. «L’espressione “fabbrica del consenso” è stata coniata proprio da Bernays», puntualizza Engdahl. È passato quasi un secolo, ma tra la “fabbrica” hollywoodiana e gli interessi strategici del mondo petrolifero e militare USA non c’è divorzio in vista: il matrimonio è ancora solidissimo.
Naturalmente il sodalizio ha vissuto tante fasi e ha cambiato pelle. Ad esempio, dal 1953 al 1999 operava la USIA (United States Information Agency), l’agenzia che si prefiggeva di «influenzare le attitudini e le opinioni del pubblico di altri paesi in modo da favorire le politiche degli USA […] nonché di raccontare l'America e le politiche gli obiettivi americani ai popoli di altre nazioni in modo da generare comprensione, rispetto e, ove possibile, identificazione con le proprie legittime aspirazioni». Prima e dopo la USIA hanno operato anche altre agenzie e branche governative, note o perfino occulte, ma tutte hanno coltivato molto da vicino la produzione ideologica hollywoodiana, secondo una logica sistemica. John Kleeves aveva definito il cinema USA come una sorprendente e strana “cinematografia di Stato”, abile a ottenere un successo economico proprio fra le masse di spettatori che manipolava.
Quando l’Italia sconfitta cadde sotto le clausole segrete dell’armistizio nel 1943, non dovette solo cedere il suolo alle basi USA e impedirsi di sviluppare certe industrie: senza alcun vincolo di reciprocità, si aprì alla produzione audiovisiva americana, fece invadere i propri cinema dai film doppiati, lasciò inondare la propria programmazione televisiva dai format americani, e così via. Altrettanto accadde in altri paesi. Le industrie audiovisive nazionali e il cinema europeo e furono soggiogati in pochi decenni. Si perfezionò una progressiva colonizzazione dei sogni di sterminate masse di spettatori. Interi movimenti politici popolari non capirono che tutto ciò svuotava dall’interno ogni loro pretesa di sovranitàPer un tipico critico cinematografico occidentale tutto questo può sembrare una legge di natura. Per un tipico dirigente iraniano, no. A Teheran, dove alla sovranità ci tengono davvero, l’allarme è dunque scattato. La novità è che quel dirigente iraniano vuole incontrare genti diverse accomunate dalla stessa idea: quella per cui l’identificarsi con gli Studios non è un dato acquisito per sempre.
Lo stesso dirigente iraniano magari deve tenere conto delle aspre lotte politiche del suo paese, che caricano pesanti sconfitte sui perdenti. Le condanne penali subite da alcuni cineasti nell’ambito della battaglia politica in Iran lo testimoniano. Ma le contraddizioni non ci devono far smarrire l’orizzonte della vicenda più generale. Abbiamo forse le carte in regola, in termini di libertà, in provincia di Hollywood? Niente affatto.
Proprio il canone estetico e ideologico hollywoodiano è passato per una tempesta giudiziaria che a un certo punto lo ha cambiato – spietatamente - per sempre. Durante il maccartismo, negli anni quaranta e cinquanta, la caccia ai comunisti fu solo una scusa, un paravento. Il bersaglio grosso era invece un altro, ossia le produzioni che non si conformavano agli standard della fabbrica: ogni deviazione fu epurata, i dissidenti furono incarcerati, i registi e i produttori scomodi furono intimiditi o esiliati, gli autori e attori definitivamente spaventati con provvedimenti esemplari e carriere spettacolarmente stroncate. Da allora il cinema è quello normalizzato che conosciamo, con una progressiva standardizzazione delle trame dei blockbusters e la sostanziale affermazione di un quadro di valori che non può discostarsi dall’American way of life né dalle visioni dell’Altro più comode per costruire un’immagine del Nemico.
Anche se nessuna persona di buon senso può disconoscere la qualità di quella “fabbrica”, il valore dei suoi attori, la sua capacità di reclutare autori dalla scrittura raffinata e potente, non si deve rinunciare a smascherare i suoi limiti e le sue operazioni più manipolatrici. Per criticare una simile industria serve una visione culturale altrettanto potente, perché a suo modo Hollywood è un luogo che premia il talento. In cambio del disegno generale a cui collaborano, i talentuosi ottengono tanto, tantissimo. Gli autori e attori hollywoodiani possono far sfoggio di un anticonformismo che nel resto della società statunitense è inibito. E viene premiata la loro cultura. Lì non regnano impresari mediatici subdominanti come Silvio Berlusconi: non ti basta avere un bell’aspetto, non fai il salto da un calendario osé al grande giro, non muovi un passo se non hai respirato a fondo le pagine diShakespeare, che anche nel cinema portano una nozione elevata della drammaturgia, un forte mestiere insieme politico e artistico. Quel che devi sapere è fin dove puoi spingerti davvero e a che punto devi fermarti.
Non c’è un Ministro della propaganda che emani le regole, ma il manuale di autocensura c’è lo stesso, di fatto. Ai tempi del maccartismo lo aveva compilato la sceneggiatrice Ayn Rand, mobilitando tutta la parte conservatrice di Hollywood. Possiamo dire che il manuale ha permeato tutta la produzione, riportando abilmente anche la parte “progressista” dentro il proprio recinto, con l’aiuto delle apposite agenzie governative.
I valori del modello americano si riversano in uno stampino che rende omogenei quasi tutti i film importanti di quella produzione. I personaggi e le ambientazioni storiche cambiano, ma lo sviluppo narrativo segue perlopiù il medesimo cliché: la presentazione del «protagonista», i meccanismi che fanno scattare l’«identificazione» dello spettatore, la «ricerca dell’oggetto agognato», la caratterizzazione dell’«antagonista», il «conflitto», il presentarsi di uno «stato d’eccezione» che giustifica atti straordinari e infine la «risoluzione». Se a questi ingredienti si aggiunge una fuga dal reale, la mancata rappresentazione di intere condizioni sociali, una profonda adulterazione dei fatti storici, un’identificazione del “villain” con un nemico corrente da disumanizzare, una logica individualista che va a ripararsi sotto l’ombrello dei tecnici che risolvono le situazioni eccezionali, abbiamo l’Hollywoodismo. E abbiamo, per contro, un immenso spazio lasciato libero per un cinema che l’Hollywoodismo non potrà contenere. Chi può riempire questo spazio?

Strano chiederselo a Teheran. L’Iran non è forse il luogo dell’oscurantismo? Sai, le cose che si affermano in Occidente sulla condizione della donna, ecc.
Quasi per distrarmi, lo domando a una giornalista americana il cui nome, per un italiano, ha perfino echi cinematografici stranamente familiari, Monica Witt. Attendo che Monica termini un’intervista in inglese con alcune sorridenti studentesse iraniane. Sono ragazze molto rappresentative, devo dire: oltre il 60% degli studenti universitari iraniani sono donne. Si coprono il capo con i loro foulard allo stesso modo in cui faceva mia nonna in Barbagia con il suo “muncadore” sino a pochi anni fa. A differenza di mia nonna, però, armeggiano con degli iPhone 5 e con gli esposimetri delle loro fotocamere di ultima generazione. Realizzo che la popolazione iraniana, essendo costituita per il 70% da giovani, è composta in prevalenza da “nativi digitali” che hanno familiarità con il web, inproporzioni esattamente rovesciate rispetto all’Italia.
Beh, ma sai, quante donne sono star nel cinema, da noi, no? «Sei proprio sicuro di questo?» esordisce la Witt, che annuncia: «io avrei dei dati un po’ diversi, sul ruolo delle donne nella galassia hollywoodiana».
Quali?
«Una fonte autorevole, l’American Psycological Association (APA), l’associazione di categoria degli psicologi USA, ha stilato un Rapporto sulla sessualizzazione delle minorenni, che – fra tante altre cose – segnala che fra i primi 101 “film per tutti” girati nel periodo 1990-2004, il 75% dei personaggi erano maschi, l’83% delle persone nelle folle erano maschi, l’83% dei narratori erano maschi, e solo il 28% dei personaggi che proferivano parola erano donne. Il rapporto è del 2010, un anno in cui le statistiche dicono che le donne sono il 51% della popolazione USA».
Monica Witt sorride amaramente e si aggiusta il coloratissimo foulard sui capelli, mentre mi parla proprio dei vestiti delle attrici: «Che dire poi del ritratto delle donne hollywoodiane? Gran parte dei film di Hollywood presenta un campionario limitatissimo di ruoli femminili, che in genere consiste in personaggi ipersessualizzati che hanno poca profondità. Nella maggioranza dei film prodotti dalle major, si tratta di femmine giovani, attraenti, molto più svestite delle controparti maschili. Sono davvero pochissimi i film che abbiano in primo piano forti personaggi femminili intellettuali o donne leader. L’APA ritiene che queste rappresentazioni contribuiscono in modo preoccupante all’oggettivazione e sessualizzazione delle donne nella società».
E nei cartoni animati è perfino peggio. Quali sono le conseguenze?
«Per i bambini e le bambine sono devastanti. Per le giovani donne in generale creano un senso di inadeguatezza rispetto a standard incentrati sul miglioramento legato alla sessualità delle star». Una delle ragazze che assiste al colloquio con Monica ha una benda sul naso, fresca di operazione, come moltissime sue coetanee iraniane che ricorrono al chirurgo plastico per ritoccarsi il profilo. Ha concentrato sul volto lo stesso inseguimento dei modelli che molte occidentali distribuiscono su tutto il corpo. Non so se è una sublimazione di Hollywoodismo. Sento però che la Witt, pur non proponendo ricette alternative, segnala con forza l’esigenza di un cinema che non sia così programmaticamente orientato alla dissoluzione delle società sotto l’ombrello di un’apparente “liberazione”. Il problema non è solo americano o solo iraniano. Ha un respiro mondiale.

Quali progetti allora? Ne parla Nader Talebzadeh, un regista iraniano che ha a lungo insegnato anche alla Columbia University, e al quale le autorità di Teheran intervenute prestano molto ascolto. Talebzadeh è l’autore di “The Messiah”, un film che presenta la figura di Cristo (importantissima anche per l’Islam) secondo la prospettiva musulmana. Il nuovo progetto a cui il regista si dedica mira a creare una Organizzazione non governativa su scala mondiale, dedicata a un’agenda mediatica semplicemente «diversa» da quella incentrata sull’immaginario hollywoodiano. La base sarà«un’associazione internazionale composta da intellettuali indipendenti di diverse nazioni e culture» che lancerà una campagna mondiale di raccolta fondi e mezzi logistici, e stabilirà diversiprogetti audiovisivi e «nuove reti fra artisti e liberi pensatori di tutto il mondo», orientati ad acquisire i mezzi oggi negati dall’attuale sistema«per un lavoro diretto a contatto con grandi masse».
Il motore dei nuovi media è dunque acceso in Iran, un luogo che percepisce se stesso al centro di una Rivoluzione spirituale autentica. La cosa sorprendente è che l’Iran non è il luogo dei veli, ma – seppure in modo controverso – un luogo che si apre al mondo. Molti veli dobbiamo toglierli invece alla nostra falsa coscienza occidentale, per arrivare a capire che la nostra narrazione del pianeta non è universale, e che deve accogliere come un dono prezioso lo sforzo di raccontare la vita degli uomini e delle donne nel mondo in modo diverso. Anche da noi migliaia di artisti e di attivisti potrebbero coalizzare i loro sforzi. Serve un progetto. Il seme del progetto è partito in un terreno inatteso.

domenica 3 marzo 2013

11 Settembre: CIA assassinò giornalista investigativo Philip Marshall per impedirgli di dire verità


11 Settembre: CIA assassinò giornalista investigativo Philip Marshall per impedirgli di dire verità
TEHERAN (IRIB) – Un ex ufficiale americano dell'Agenzia di Sicurezza Nazionale ha rivelato che il giornalista investigativo Philip Marshall venne eliminato dalla CIA in una operazione coperta per impedirgli di divulgare la verità su questi attacchi.

Wayne Madsen, ex ufficiale della Us National Security Agency, lo ha spiegato in una trasmissione organizzata da Kevin Barrett, fondatore della "Muslim-Jewish-Christian Alliance" spiegando di essere giunto a questa conclusione a seguito di una serie di ricerche personali.
Philip Marshall, scrittore e giornalista investigativo, infatti, aveva scoperto che gli attentati dell'11 Settembre non erano esito di una operazione terroristica suicida. Il giornalista venne trovato morto nella sua abitazione insieme ai suoi figli, Micalia di 14 anni e Alex di 17 anni.
Ora secondo Madsen, la morte dubbia dei tre sarebbe stata in realtà una eliminazione mirata della Cia. Lo stesso Madsen, amico e collega di Marshall, spiega che quest'ultimo negli ultimi anni della sua vita aveva effettuato molte ricerche sull'11 Settembre giungendo alla conclusione che la mente dietro agli attacchi era George Walker Bush in persona che li usò come uno strumento per effettuare un colpo di stato.
Madsen ha spiegato che la scena dell'orrendo crimine della Cia è stata ripulita ad arte da professionisti.
In una recente intervista con Press TV, anche Kevin Barrett aveva affermato "Che Philip Marshall aveva ottenuto un qualche materiale esplosivo sull'11 Settembre che aveva intenzione di pubblicare nel suo prossimo libro".

martedì 19 febbraio 2013

PAPA E ABUSI SESSUALI SU REUTERS


immunityPer coloro che temevano che la querelle sulle accuse al Papa fosse tutta una bufala, esce una notizia di agenzia oggi 15 che parla della vicenda, accreditando quindi in pieno mainstream che il rischio di accuse e relative conseguenze è per il pontefice quanto mai concreto.
Tanto che lo costringerebbe a vivere in territorio Vaticano per poter avere immunità.
Jervé
Il Papa avrà l’immunità rimanendo in Vaticano.