fonte aurorasito.wordpress.com
In morte di Nelson Mandela, osanna continuano ad essere cantati verso l’ex leader dell’ANC e presidente sudafricano sia da sinistra, per il suo ruolo nel porre fine al razzismo istituzionale dell’apartheid, che da destra, apparentemente per la stessa ragione. Ma l’abbraccio della destra di Mandela eroe antirazzista non sembra genuino. C’è un’altra ragione del perché media dell’establishment e politici tradizionali sono pazzi di Mandela come la sinistra?
Secondo Doug Saunders, giornalista del quotidiano canadese sfacciatamente pro-aziendalista, The Globe and Mail, c’è. In un articolo del 6 dicembre, “Dal rivoluzionario al manager: la lezione del cambiamento di Mandela“, Saunders scrive che il “grande risultato” di Mandela fu proteggere l’economia sudafricana, quale sfera dello sfruttamento da parte della minoranza bianca possidente e delle élite aziendale e finanziarie occidentali, dalle necessità di una giustizia economica tra le file del movimento da lui guidato. Saunders non la mette in questi termini, piuttosto, nasconde gli interessi settoriali dei detentori di titoli, proprietari terrieri ed investitori stranieri che sono dietro l’abbraccio di Mandela dei “sani” principi della gestione economica, ma il significato è lo stesso. Saunders cita Alec Russell, autore del Financial Times che spiega che sotto Mandela, l’ANC “si è rivelato un amministratore affidabile della più grande economia dell’Africa sub-sahariana, abbracciando politiche fiscali e monetarie ortodosse...” Cioè, Mandela ha fatto in modo che il flusso dei profitti dalle miniere e dall’agricoltura sudafricane alle casse degli investitori stranieri e delle élite aziendali bianche non venisse interrotto con l’attuazione del programma di giustizia economica dell’ANC, con le sue richieste di nazionalizzazione delle miniere e di redistribuzione della terra.
Invece, Mandela respinse le richieste di giustizia economica come “cultura dei diritti”, di cui i sudafricani dovevano liberarsi. Riuscendo a persuaderli nel farlo, significò che la digestione pacifica dei profitti dei potenti poté continuare senza interruzioni. Ma non è il tradimento di Mandela del programma economico dell’ANC che secondo Saunders merita l’ammirazione della destra, anche se ne è certamente grata. Il genio di Mandela, secondo Saunders, fu che lo fece “senza alienarsi i seguaci radicali o scatenando una pericolosa lotta tra fazioni nel suo movimento“. Così, secondo Saunder, Mandela era un tipo speciale di leader: uno che poteva usare i suoi enormi prestigio e carisma per indurre i seguaci a sacrificare i propri interessi per il bene delle élite che si arricchiscono con il loro sudore, arrivando ad accettare il ripudio del proprio programma economico. “Ecco la lezione fondamentale di Mandela ai politici moderni“, scrive Saunders. “Il leader dai principi di successo è colui che tradisce i membri del suo partito per i maggiori interessi della nazione. Quando si deve decidere tra il movimento e il bene più grande, il partito non dovrebbe mai venire prima.” Per Saunders e la maggior parte degli altri giornalisti mainstream, “i maggiori interessi della nazione” sono i grandi interessi di banche, proprietari terrieri, obbligazionisti ed azionisti. Questa è l’idea espressa nel vecchio adagio “Ciò che è buono per GM, è buono per l’America.” Da quando i media tradizionali sono grandi aziende, intrecciate con altre grandi aziende, e dipendono ancora da altre grandi società pubblicitarie, l’apposizione del segno uguale tra interessi aziendali e l’interesse nazionale viene del tutto naturale. Saremmo scioccati dallo scoprire che un giornale a grande diffusione e proprietà di ambientalisti (se una cosa del genere esistesse) si opponesse al fracking? (I giornalisti potranno gioirne, “dico quello che mi piace.” Ma, come Michael Parenti una volta sottolineò, i giornalisti dicono quello che vogliono perché ai loro padroni piace quello che dicono.)
Com’era prevedibile, Saunders conclude il suo elogio del tradimento anti-partito di Mandela, l’eroe ‘buono’ della liberazione, con un riferimento al ‘cattivo’ eroe della liberazione sudafricana, Robert Mugabe. “Basta solo guardare a nord, nello Zimbabwe, per vedere cosa accade di solito quando i rivoluzionari” non riescono a seguire il percorso economico conservatore di Mandela, scrive Saunders. A un certo punto, la predilezione di Mugabe per la politica fiscale e monetaria ortodossa era forte quanto quella di Mandela. Eppure, dopo quasi un decennio e mezzo di demonizzazione sui media occidentali di Mugabe come delinquente autocratico, è difficile ricordare che anche lui, una volta faceva brindisi con i capitali occidentali.
L’amore dell’occidente verso Mugabe finì bruscamente quando respinse il Washington Consensus e avviò un veloce programma di riforma agraria. Il disprezzo verso di lui s’approfondì quando lanciò un programma di indigenizzazione per mettere il controllo della maggioranza delle risorse minerarie del Paese nelle mani dei cittadini neri dello Zimbabwe. La transizione di Mugabe da eroe ‘buono’ della liberazione a ‘cattivo’, da santo a demonio, coincise con il suo passaggio da “steward affidabile” dell’economia dello Zimbabwe (cioè affidabile per gli interessi degli investitori stranieri e dei coloni bianchi) a promotore degli interessi economici dei neri indigeni. Questo è un passaggio che Mandela non fece mai. Se l’avesse fatto, l’élite imperialista non avrebbe affollato il Sud Africa per i funerali del Santo Mandela, traboccando di gentili elogi.
In morte di Nelson Mandela, osanna continuano ad essere cantati verso l’ex leader dell’ANC e presidente sudafricano sia da sinistra, per il suo ruolo nel porre fine al razzismo istituzionale dell’apartheid, che da destra, apparentemente per la stessa ragione. Ma l’abbraccio della destra di Mandela eroe antirazzista non sembra genuino. C’è un’altra ragione del perché media dell’establishment e politici tradizionali sono pazzi di Mandela come la sinistra?
Secondo Doug Saunders, giornalista del quotidiano canadese sfacciatamente pro-aziendalista, The Globe and Mail, c’è. In un articolo del 6 dicembre, “Dal rivoluzionario al manager: la lezione del cambiamento di Mandela“, Saunders scrive che il “grande risultato” di Mandela fu proteggere l’economia sudafricana, quale sfera dello sfruttamento da parte della minoranza bianca possidente e delle élite aziendale e finanziarie occidentali, dalle necessità di una giustizia economica tra le file del movimento da lui guidato. Saunders non la mette in questi termini, piuttosto, nasconde gli interessi settoriali dei detentori di titoli, proprietari terrieri ed investitori stranieri che sono dietro l’abbraccio di Mandela dei “sani” principi della gestione economica, ma il significato è lo stesso. Saunders cita Alec Russell, autore del Financial Times che spiega che sotto Mandela, l’ANC “si è rivelato un amministratore affidabile della più grande economia dell’Africa sub-sahariana, abbracciando politiche fiscali e monetarie ortodosse...” Cioè, Mandela ha fatto in modo che il flusso dei profitti dalle miniere e dall’agricoltura sudafricane alle casse degli investitori stranieri e delle élite aziendali bianche non venisse interrotto con l’attuazione del programma di giustizia economica dell’ANC, con le sue richieste di nazionalizzazione delle miniere e di redistribuzione della terra.
Invece, Mandela respinse le richieste di giustizia economica come “cultura dei diritti”, di cui i sudafricani dovevano liberarsi. Riuscendo a persuaderli nel farlo, significò che la digestione pacifica dei profitti dei potenti poté continuare senza interruzioni. Ma non è il tradimento di Mandela del programma economico dell’ANC che secondo Saunders merita l’ammirazione della destra, anche se ne è certamente grata. Il genio di Mandela, secondo Saunders, fu che lo fece “senza alienarsi i seguaci radicali o scatenando una pericolosa lotta tra fazioni nel suo movimento“. Così, secondo Saunder, Mandela era un tipo speciale di leader: uno che poteva usare i suoi enormi prestigio e carisma per indurre i seguaci a sacrificare i propri interessi per il bene delle élite che si arricchiscono con il loro sudore, arrivando ad accettare il ripudio del proprio programma economico. “Ecco la lezione fondamentale di Mandela ai politici moderni“, scrive Saunders. “Il leader dai principi di successo è colui che tradisce i membri del suo partito per i maggiori interessi della nazione. Quando si deve decidere tra il movimento e il bene più grande, il partito non dovrebbe mai venire prima.” Per Saunders e la maggior parte degli altri giornalisti mainstream, “i maggiori interessi della nazione” sono i grandi interessi di banche, proprietari terrieri, obbligazionisti ed azionisti. Questa è l’idea espressa nel vecchio adagio “Ciò che è buono per GM, è buono per l’America.” Da quando i media tradizionali sono grandi aziende, intrecciate con altre grandi aziende, e dipendono ancora da altre grandi società pubblicitarie, l’apposizione del segno uguale tra interessi aziendali e l’interesse nazionale viene del tutto naturale. Saremmo scioccati dallo scoprire che un giornale a grande diffusione e proprietà di ambientalisti (se una cosa del genere esistesse) si opponesse al fracking? (I giornalisti potranno gioirne, “dico quello che mi piace.” Ma, come Michael Parenti una volta sottolineò, i giornalisti dicono quello che vogliono perché ai loro padroni piace quello che dicono.)
Com’era prevedibile, Saunders conclude il suo elogio del tradimento anti-partito di Mandela, l’eroe ‘buono’ della liberazione, con un riferimento al ‘cattivo’ eroe della liberazione sudafricana, Robert Mugabe. “Basta solo guardare a nord, nello Zimbabwe, per vedere cosa accade di solito quando i rivoluzionari” non riescono a seguire il percorso economico conservatore di Mandela, scrive Saunders. A un certo punto, la predilezione di Mugabe per la politica fiscale e monetaria ortodossa era forte quanto quella di Mandela. Eppure, dopo quasi un decennio e mezzo di demonizzazione sui media occidentali di Mugabe come delinquente autocratico, è difficile ricordare che anche lui, una volta faceva brindisi con i capitali occidentali.
L’amore dell’occidente verso Mugabe finì bruscamente quando respinse il Washington Consensus e avviò un veloce programma di riforma agraria. Il disprezzo verso di lui s’approfondì quando lanciò un programma di indigenizzazione per mettere il controllo della maggioranza delle risorse minerarie del Paese nelle mani dei cittadini neri dello Zimbabwe. La transizione di Mugabe da eroe ‘buono’ della liberazione a ‘cattivo’, da santo a demonio, coincise con il suo passaggio da “steward affidabile” dell’economia dello Zimbabwe (cioè affidabile per gli interessi degli investitori stranieri e dei coloni bianchi) a promotore degli interessi economici dei neri indigeni. Questo è un passaggio che Mandela non fece mai. Se l’avesse fatto, l’élite imperialista non avrebbe affollato il Sud Africa per i funerali del Santo Mandela, traboccando di gentili elogi.